Stiamo vivendo tempi difficili. E non lo dico per la crisi economica, per gli attentati terroristici o altro, ma parlo della comunicazione. I tempi che sta vivendo la comunicazione sono davvero particolari: il bisogno di informazione è sempre più vivo, ma è un bisogno di informazione spettacolaristico, di emotività, di chi la spara più grossa degli altri. E’ l’epoca della post-verità.
Il termine è stato utilizzato già a metà degli anni ’90, ma solo nel 2016 è diventata una realtà che non può essere più ignorata. Cosa si intende per post-verità? Riassume al meglio la propensione a falsificare o a contestare la verità. Delle fake news, le bufale, per dirla all’italiana, create per rafforzare dei pregiudizi, per mettere altra carne sul fuoco, non più per informare il lettore.
L’Oxford Dictionary la definisce come parola dell’anno.
Ogni anno l’Oxford Dictionary sceglie una parola, un lemma che possa simboleggiare l’anno trascorso, come Selfie nel 2o13 o la faccina che ride nel 2015. Nel 2016 è la parola post-verità. La parola post sembra rimandare all’idea di oltre, perché si va oltre la verità, che perde importanza; ciò che conta è che la notizia faccia scalpore, che faccia visualizzazioni, share, un titolone acchiappa click che venda.
E proprio nell’anno appena trascorso che le bufale hanno mostrato la loro massima potenza: un mondo in cui l’opinione pubblica è deformata dalle bufale, un mondo che si muove su indizi falsi che rafforzano pregiudizi, un mondo che si indigna per le bufale, non per i fatti. Quelli veri.
L’esempio lampante è della tanto criticata campagna elettorale di Trump. Un texano di 40 anni su Twitter denuncia i manifestanti anti-Trump, fotografando un autobus e insinuando che questi fossero stati mandati dalla Clinton. Il texano in questione aveva appena 40 follower, ma in breve il tweet è stato rilanciato di 16mila volte. A nulla è servita la smentita dello stesso texano che, resosi conto che l’autobus in questione trasportava altre persone venute li per un convegno: la notizia, presa poi dai siti a favore di Trump, rimbalza in tutti i giornali e tv
Non importa che Barack Obama abbia un certificato che attesti il suo essere americano, non importa che i vaccini facciano bene o male, non importa che i terremoti verranno ripagati: bisogna inasprire i rapporti, aizzare chi è già aizzato, creare tribunali televisivi dove chi vince non è mai il pubblico, ma il palinsesto. La comunicazione perde del suo obiettivo principale: informare. In fondo, a chi interessa la verità?
La colpa è del web, dicono loro, a tutti è data la parola: le notizie sono tutte taroccate perché persone senza titolo parlano come se stessero al bar. Per cui Brexit, il no al referendum e perfino l’elezione di Trump, tutta colpa di Facebook.
Gli altri ancora si difendono “Ci sono sempre state le false notizie, guardate la politica.” Certo, le bufale ci sono sempre state e diciamolo pure, noi italiani di false notizie ne siamo quasi gli inventori. Ciò che succede in questo momento, ciò che si intende con post-verità è la condizione per cui distinzione tra bugia e verità non è più rilevante, chi dice bugie non è più giudicato, non perde di credibilità, anzi ne acquisisce ed è perdonato: a chi non capita di sbagliare, d’altronde? I cani da guardia, di cui si parlava quando si pensava ai media sono diventati cani da salotto, che più che informare, intrattengono. Cani fedeli ai loro padroni.
Inizia quindi la guerra santa contro le fake news e si propone una soluzione. Perché non creare dei tribunali che possano definire chi dice menzogne da chi dice la verità? Una sorta di giudici con la palla di vetro, che possano definire la verità. Secoli di dilemmi filosofici risolti in pochi minuti.
Non è mettendo di nuovo un bavaglio, facendo parlare solo chi è “competente” che riusciamo ad arrivare ad una verità: l’informazione deve essere libera, indipendente, deve essere partecipata. Le diverse interpretazioni possono generare solo ricchezza. Dunque? Bisogna dare peso a ciò che si dice e si pubblica, leggere o parlare con giudizio, con senso critico, perché ogni pensiero, anche il più banale, può diventare un caso di stato.
Più pensiero critico per tutti.